1.-
L’entrata in vigore del decreto legislativo n. 198/2002 muta radicalmente la
fisionomia del quadro normativo disciplinante la realizzazione delle reti di
telecomunicazioni.
Il
provvedimento normativo in esame, infatti, modifica profondamente il sistema
previgente, che, all’esito di un processo di progressiva chiarificazione (il
cui merito va in gran parte ascritto allo sforzo interpretativo compiuto dalla
giurisprudenza), sembrava finalmente pervenuto ad un accettabile grado di
chiarezza in ordine al riparto delle competenze ed alla natura e
all’estensione dei poteri attribuiti ai soggetti pubblici coinvolti a vario
titolo nella gestione del fenomeno in tutte le sue implicazioni (economiche ed
industriali, sanitarie, ambientali ed urbanistiche).
Le
innovazioni di carattere acceleratorio introdotte dal decreto - prima fra tutti
la previsione di un regime derogatorio che consente l’insediamento delle
infrastrutture in qualsiasi parte del territorio - sono state accolte con
sfavore da associazioni ambientaliste, comitati e rappresentanti di Enti
territoriali, unificati in una sorta di mobilitazione in chiave oppositiva che,
tra l’altro, induce a prevedere una nuova stagione di conflitti in sede
giurisdizionale. In particolare, vengono denunciate, a carico del provvedimento
normativo, presunte patologie che si sostanziano nella violazione dell’assetto
di competenze legislative e regolamentari delineato dal Titolo V della
Costituzione, ovvero nello sconfinamento del legislatore statale dai limiti
contrassegnati dalla legge di delega. Si tratta, dunque, di rilievi destinati a
formare oggetto di sindacato da parte della Corte Costituzionale.
Rispetto
all’esame di tali questioni, mi sembra prioritaria una riflessione in ordine
alla portata sostanziale delle disposizioni del decreto e delle modificazioni da
questo indotte sull’ordinamento di settore avendo riguardo ai principi
fondamentali di politica ambientale che vincolano lo Stato italiano in ragione
della sua appartenenza all’Unione europea.
2.-
Occorre premettere che, in considerazione dell’attuale inesistenza di dati
certi in ordine agli effetti dell’esposizione cronica ai campi
elettromagnetici, il legislatore nazionale è vincolato al rispetto del
principio di precauzione.
2.1.-
Si tratta, in sintesi, del noto
principio secondo cui, al fine di garantire la protezione di beni fondamentali,
come la salute o l’ambiente, è
necessaria l’adozione o l’imposizione di determinate misure di cautela anche
in situazioni di incertezza scientifica, nelle quali è
ipotizzabile soltanto una situazione di rischio, e non è invece
dimostrata, allo stato delle attuali conoscenze scientifiche, la sicura o anche
solo probabile evoluzione del rischio in pericolo.
Il
principio di precauzione legittima quindi l’imposizione di determinate cautele
in un momento anteriore a quello nel quale, in
una logica di tipo preventivo, debbono essere disposti gli interventi
preordinati alla difesa dal pericolo.
Tale
anticipazione della soglia di intervento si
impone - e legittima la restrizione di alcuni diritti fondamentali, come
l’iniziativa economica privata - per la peculiare
natura di beni come la
salute e l’ambiente,
il cui danneggiamento non
potrebbe essere adeguatamente riparato attraverso un intervento
successivo, in considerazione della dimensione
spaziale e temporale talvolta incontrollabile
e della temibile diffusività dei potenziali eventi dannosi, dovuta anche
alla reciproca interferenza e convergenza fra le potenziali fonti di danno.
2.2.-
Come
noto, il principio di precauzione è previsto dal trattato C.E. come fondamento
della politica ambientale comunitaria.
Conseguentemente,
l’art. 174, che sancisce tale principio,
rientra tra le disposizioni del trattato che esprimono gli obiettivi
fondamentali e i principi essenziali, e che pertanto, secondo la Corte di
Giustizia[1],
hanno valore costituzionale ed enunciano principi vincolanti per gli Stati
membri.
Il
principio precauzionale è stato inserito, con le modifiche apportate dal
trattato di Maastricht, fra i principi fondamentali della politica
comunitaria in materia ambientale, accanto al principio di prevenzione,
al principio di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati
all’ambiente e al principio chi inquina paga (art. 174
cit.).
Secondo
l’interpretazione della Corte di giustizia e della Commissione delle Comunità
europee, il principio enunciato nell’art. 174 del trattato, è un principio
generale del diritto comunitario, la sua applicazione non è
limitata al diritto ambientale, ma si estende ad altre materie di
interesse comunitario, in particolare la tutela della salute e dei consumatori.
Interessa quindi i tre tipici settori di intervento della ricerca e
delle applicazioni biotecnologiche, come
del resto confermano le più recenti direttive, che si ispirano al
principio precauzionale e vincolano espressamente gli
Stati membri al rispetto del medesimo principio nella relativa disciplina
di attuazione. E’ il caso ad esempio della direttiva 2001/18/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, sull’emissione deliberata nell’ambiente di
organismi geneticamente modificati, (considerando (8))[2].
2.3.-
Tornando
alla specifica materia delle sorgenti fisse di c.e.m., credo che sia agevole
l’individuazione dei vincoli conformativi derivanti in capo agli Stati membri
dall’affermazione comunitaria del principio di precauzione e del suo
corollario, il principio c.d. A.L.A.R.A. (As Low As Reasonable Possible),
secondo il quale, una volta effettuata la scelta tecnologica, l’esposizione
agli effetti potenzialmente nocivi della stessa deve rimanere al livello più
basso ragionevolmente ottenibile.
Mi pare infatti evidente che il nucleo essenziale degli obblighi
incombenti sul legislatore si riduca a questo: disciplinare la materia in modo
da assicurare - senza pregiudizio per l’efficienza dei servizi di
telecomunicazione - che l’esposizione si attesti sui livelli di campo più
bassi in concreto realizzabili.
Tale obiettivo, ovviamente, non può dirsi raggiunto attraverso la
semplice previsione di limiti di esposizione e valori di attenzione, che si
traduce nella semplice imposizione di una soglia massima di valori di
campo priva di carattere incentivante rispetto al mantenimento dei campi nei
valori più bassi in concreto realizzabili.
A tanto si aggiunga che lo stesso valore cautelativo di detti limiti
massimi è assai dubbio in ragione del fatto che essi (inevitabilmente) non
riflettono una effettiva conoscenza delle conseguenze dell’esposizione a lungo
termine.
Si consideri, ad esempio, che la individuazione dei valori di cautela
fissati dall’art. 4 del D.M. 381/1998 è stata operata in dichiarata “assenza
di dati sperimentali sufficienti”, come espressamente ammesso nelle linee
guida applicative del decreto in questione (par. 5).
Anche per tale ragione, non sembra proprio che la semplice imposizione di
limiti massimi sia idonea a soddisfare gli obblighi derivanti allo Stato dal
Trattato CEE.
Di
contro, l’ordinamento di settore, in ossequio ai principi di politica
ambientale stabiliti dalla CEE, deve contemplare misure idonee a provocare ed
incentivare la tendenziale riduzione dell’esposizione nel massimo grado
possibile (ovviamente senza pregiudizio per l’efficienza dei sistemi di
comunicazione).
Siffatte misure, evidentemente, possono (e devono) investire sia il
versante delle scelte tecnologiche da operare in sede di progettazione e
realizzazione delle reti (imponendo l’adozione di tecnologie di minor impatto)
che quello delle scelte localizzative (garantendo l’ottimizzazione della
distribuzione degli impianti e la conseguente omogeinizzazione del campo ed il
conseguimento dei valori più bassi in concreto realizzabili).
3.-
Invero,
il legislatore nazionale, nel disciplinare la materia, non aveva ignorato tale
necessità.
3.1.-
Al riguardo, infatti, già il D.M. 381/1998 aveva stabilito che “la
progettazione e la realizzazione dei sistemi fissi delle
telecomunicazioni e radiotelevisivi (…) deve avvenire in modo da produrre i
valori di campo elettromagnetico più bassi possibile, compatibilmente con
la qualità del servizio svolto dal sistema stesso al
fine di minimizzare l’esposizione della popolazione” (art.
4 comma 1), introducendo il concetto di “obiettivo
di qualità”.
Dunque, ferma restando la necessaria osservanza dei limiti e valori
massimi ivi anche stabiliti, il decreto impegnava i gestori e gli Enti pubblici
competenti ad adoperarsi per la individuazione di soluzioni tecnologiche e
realizzative idonee a garantire la mimizzazione dell’esposizione.
In tale quadro, si demandava alle Regioni la disciplina delle attività
di installazione e modifica degli impianti.
Si faceva dunque perno sulla scelta delle tecnologie applicabili, ma
anche, ed il dato è rilevante, sulle scelte afferenti alla fase di
configurazione e realizzazione delle reti sul territorio.
In
tale prospettiva, il D.M. 381/1998, almeno nell’opinione dei suoi redattori,
sottendeva sostanziali possibilità di gestione del fenomeno anche a livello
comunale, potendo gli Enti locali, sulla scorta di una conoscenza ravvicinata
del territorio governato e delle sue peculiarità, regolamentare
l’insediamento delle infrastrutture adottando strumenti regolamentari idonei a
“garantire la tutela della salute,
dell’ambiente e del paesaggio e la minimizzazione dell’esposizione ai campi
elettromagnetici” (cfr. linee guida illustrative cit., par. 4).
In
parole povere, si riteneva che il Comune, fermo restando il rispetto dei limiti
e dei valori stabiliti dallo Stato e la necessità di non intaccare
l’efficienza delle reti, potesse adoperarsi allo scopo di assicurare - tra le
varie possibili - la individuazione di soluzioni realizzative e localizzative
idonee a minimizzare l’impatto delle infrastrutture su salute, ambiente e
territorio.
In
tale configurazione del ruolo comunale trovava piena realizzazione il principio
di precauzione: accanto al potere statale e regionale di influire sulle scelte
tecnologiche dei gestori si collocava, infatti, l’imprescindibile potere del
comune di imporre, tra più soluzioni localizzative in concreto ipotizzabili, la
scelta di quella più idonea a minimizzare l’impatto sulla salute e sull’habitat
delle infrastrutture telefoniche.
4.
- Sennonché,
come tutti sappiamo, il Giudice amministrativo ha escluso la sussistenza, a
livello comunale, di prerogative connesse alla tutela della salute ed
all’organizzazione del sistema di telecomunicazioni, materie concentrate nelle
mani dello Stato.
Si
è riconosciuta, di contro, fin dalle prime pronunce del TAR Lombardia, la
possibilità dei Comuni di esercitare potestà di natura meramente urbanistica,
da esplicarsi nelle forme tipiche della pianificazione territoriale[3].
5.-
Successivamente, l’impostazione originariamente accolta dai redattori del D.M.
381/1998 sembrava aver trovato piena conferma nella legge quadro 36/2001
Anzitutto,
a norma dell'art. 1 della legge quadro, nell'ordinamento italiano veniva
recepito il principio di precauzione e di minimizzazione del rischio, dal quale
promana il relativo obbligo degli esercenti attività di impresa nel settore di
abbassare al minimo ragionevolmente possibile i livelli di intensità dei campi
elettromagnetici secondo la migliore tecnologia utilizzabile.
La
legge, poi, riprendeva e disciplinava in modo più analitico l’istituto degli
“obiettivi di qualità”,
ricomprendendovi (art. 3, comma 1):
-
i criteri localizzativi, gli standard urbanistici, le prescrizioni e le
incentivazioni, affidandone la definizione alla legislazione regionale;
-
i valori di campo, da definirsi da parte dello Stato nell’ottica di una
progressiva minimizzazione dell’esposizione ai campi medesimi.
Il
descritto riparto di attribuzioni veniva ribadito nel prosieguo del
provvedimento normativo.
In
particolare:
-
a norma dell'art. 4 della l. n. 36/2001 allo Stato competeva la determinazione
dei limiti di esposizione ai campi elettromagnetici;
-
ai sensi dell'art. 8 della l. n. 36/2001 alle Regioni competeva la definzione
degli strumenti e delle azioni per il raggiungimento degli obiettivi di qualità
consistenti in criteri localizzativi, standard urbanistici, prescrizioni ed
incentivazioni.
Ai
Comuni, infine, si riconosceva l’esercizio di una potestà regolamentare
finalizzata ad assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale
degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione.
Insomma,
come si vede, nel sistema disegnato dalla legge quadro la effettività del
principio di precauzione era, di fatto, affidata all’azione delle Regioni e
dei Comuni, titolari, in concreto, del potere di incidere sulle scelte
tecnologiche e realizzative dei gestori in funzione di minimizzazione.
Di
contro, allo Stato competeva l’individuazione di limiti e valori massimi di
esposizione; cioè l’adozione di prescrizioni che, come dianzi evidenziato,
non costituiscono adempimento agli obblighi di anticipazione della tutela
rivenienti dal trattato CEE.
Si insiste, insomma, nel sottolineare che nel sistema della legge quadro
la realizzazione del principio di precauzione (e della tutela anticipata che ne
costituisce la proiezione più immediata) era demandata ai livelli regionale e
comunale di gestione dell’insediamento delle infrastrutture.
6.-
Sarebbe peraltro superflua, in questa sede, una analitica ricostruzione delle
oscillazioni verificatesi in giurisprudenza, anche nel mutato quadro normativo,
in ordine alla natura e alla latitudine dei poteri dei Comuni.
E’
sufficiente ricordare che l’orientamento ormai prevalente (consolidatosi in
virtù di due recenti pronunce di merito del Consiglio di Stato[4]),
aveva riconosciuto la sussistenza, in capo ai Comuni, sia di un potere di
matrice urbanistica, da esercitarsi nelle forme tipiche della pianificazione,
sia di un potere residuale di tutela sanitaria, esercitabile in relazione alla
specifica situazione locale e sulla base di inequivoche risultanze istruttorie
di carattere scientifico.
In
conclusione, va sottolineato ancora una volta come il nucleo qualificante del
livello comunale di gestione del fenomeno (livello che si caratterizza per la
convivenza di finalità di governo del territorio in senso stretto con esigenze
di “minimizzazione” dell’esposizione) consistesse proprio nella possibilità
di tradurre in disciplina regolamentare - da definire in contraddittorio con i
gestori e comunque sulla scorta di tutti i dati rilevanti ai fini della
valutazione delle esigenze di rete - l’individuazione, tra le tante, delle
soluzioni localizzative meno impattanti sull’assetto del territorio e
sull’habitat naturale ed umano.
7.-
Il
sistema previgente all’entrata in vigore del decreto Gasparri, dunque,
contemplava una equilibrata distribuzione di compiti tra Stato Regioni e Comuni.
Dalla complessiva attività svolta nei descritti tre livelli di gestione del
fenomeno (e specialmente da quella svolta in sede regionale e comunale) emergeva
in concreto la realizzazione del principio di precauzione, il cui conseguimento
passava attraverso la previsione di misure e prescrizioni e la definizione di
strumenti regolamentari idonei ad imporre agli operatori del settore - ferma la
necessità di non compormettere l’efficienza tecnica delle reti - l’adozione
delle soluzioni tecnologiche e localizzative di minor impatto per la salute,
l’ambiente ed il territorio.
Gli
equilibri sottesi al descritto riparto di attribuzioni vengono vanificati dalle
disposizioni contenute nel decreto legislativo qui in esame.
In
particolare, all’articolo 3, il decreto Gasparri prevede speciali procedure ai
fini della realizzazione delle reti, anche in deroga alle previsioni della legge
quadro (ponendo espressamente nel nulla l’art. 8. comma 1, lett. c, che
demandava alle Regioni la definizione delle procedure autorizzative). Introduce,
quindi, meccanismi procedimentali notevolmente accelerati e semplificati,
prevedendo l’applicazione, in generose proporzioni, dell’istituto del
silenzio assenso.
Inoltre,
la disposizione in esame, sovrapponendosi al potere pianificatorio dei Comuni,
afferma la compatibilità delle infrastrutture in questione “con
qualsiasi destinazione urbanistica”, chiarendo che le stesse “sono
realizzabili in ogni parte del territorio comunale, anche in deroga agli
strumenti urbanistici e ad ogni altra disposizione di legge o di regolamento”
(comma 2).
Infine, gli impianti vengono assimilati “ad
ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria di cui all'articolo 16, comma
7, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, pur
restando di proprietà dei rispettivi operatori, e ad esse si applica la
normativa vigente in materia” (comma 3).
Ora, in disparte ogni considerazione sulla compatibilità di tali
previsioni con l’attuale assetto di competenze legislative e regolamentari -
come delineato dal riformato art. 117 Cost. - appare evidente che le
disposizioni in esame determinano una pressoché totale soppressione del ruolo
delle Regioni e dei Comuni nella gestione dell’insediamento delle
infrastrutture.
Da un lato, infatti, si riservano agli impianti procedure autorizzative
speciali, in deroga a quelle stabilite dalle regioni ai sensi dell’art. 8
della legge quadro. In tale nuovo contesto procedimentale - esclusa la formale
conservazione del potere regionale di definire “incentivazioni” - non sembra
residui alcuno spazio per la definizione ed applicazione degli obiettivi di
qualità previsti dalla legge quadro. Ed infatti, la precettività degli
obiettivi consistenti nella previsione di “criteri
localizzativi e standard urbanistici” viene di fatto neutralizzata dalle
previsioni racchiuse nei commi 2 e 3 dell’art. 3 del decreto Gasparri, che,
come riferito, consentono di installare i ripetitori in qualsiasi parte del
territorio comunale ed in deroga a qualsiasi previsione di legge, piano o
regolamento.
Dall’altro, si esclude ogni possibilità per i Comuni di concorrere
alla definizione del fenomeno insediativo attraverso l’adozione dei
regolamenti previsti dall’art. 8 della legge quadro, stante la dichiarata
compatibilità delle infrastrutture con tutte le zonizzazioni e la assimilazione
delle stesse alle urbanizzazioni primarie.
Di fatto, si preclude ogni possibilità di disciplina del fenomeno a
livello comunale, attraverso l’instaurazione di un regime derogatorio idoneo a
superare le previsioni contenute negli strumenti urbanistici ed “ogni
altra disposizione di legge o regolamento”.
In tal modo, si svuota di contenuto anche il potere comunale di
introdurre misure di minimizzazione basate sulla conoscenza della situazione
locale e del territorio governato.
In una parola, il decreto “Gasparri” elimina quasi del tutto le fasi
di gestione di livello regionale e comunale, che, come dianzi riferito, nel
sistema della legge quadro si ponevano in funzione di perseguimento della
minimizzazione dell’esposizione e quindi, mediatamente, miravano ad assicurare
l’effettività del principio di precauzione (e del suo corollario A.L.A.R.A.)
nell’ambito dell’ordinamento interno.
Di contro, nel sistema inaugurato dal decreto “Gasparri” non sembra
ci sia spazio alcuno per un intervento delle Amministrazioni più vicine al
territorio interessato dall’insediamento delle reti, né conseguentemente è
configurabile un’attività valutativa e decisionale volta
all’individuazione, tra le tante astrattamente configurabili, della soluzione
localizzativa idonea a garantire, nel contemperamento di tutti gli interessi
coinvolti, una minimizzazione dell’esposizione.
8.- In conclusione, il decreto “Gasparri”, eliminando
dall’ordinamento di settore ogni previsione finalizzata ad innescare dinamiche
di tendenziale abbattimento, nel massimo grado possibile, dei livelli di
esposizione, non sembra conciliabile con gli obblighi di minimizzazione
derivanti dai principi affermati dall’art. 174 del Trattato CEE.
Tanto potrebbe indurre a configurare, in capo al Giudice, obblighi di
disapplicazione della legge nazionale contrastante con la normativa comunitaria
prevalente, con conseguente preclusione del dispiegarsi degli effetti derogatori
contemplati dal decreto. Infatti, “costituisce
orientamento ormai pacifico quello in virtù del quale il diritto comunitario
prevale su quello dei singoli Stati membri, con il conseguente obbligo per il
giudice nazionale di disapplicare la norma interna eventualmente contrastante
(…)”[5]
Siffatto obbligo di disapplicazione andrebbe esteso, secondo un indirizzo
più recente, anche alla pubblica Amministrazione.
Si è affermato al riguardo che “poiché
le norme del Trattato CE sono direttamente efficaci nell’ordinamento giuridico
di ciascuno Stato membro e il diritto comunitario prevale sul diritto nazionale,
queste disposizioni attribuiscono agli interessati dei diritti che le autorità
nazionali devono rispettare e tutelare (…). Risulta,
infatti, che, da un lato sono soggetti a tale principio di preminenza tutti gli
organi dell’amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali, nei
confronti dei quali i singoli sono pertanto legittimati a far valere tale
disposizione comunitaria (…)”[6].
In
ogni caso, si preannuncia una ulteriore impennata della conflittualità tra
cittadini, associazioni, Enti locali e gestori dei servizi di telefonia, e sono
già in corso di proposizione iniziative, promosse sia in via incidentale che in
via principale, finalizzate alla sottoposizione del decreto “Gasparri” al
Giudice delle leggi. Le patologie denunciate attengono, come già riferito, alla
violazione dell’assetto di competenze legislative e regolamentari delineato
dal Titolo V della Costituzione, ovvero allo sconfinamento del legislatore
statale dai limiti contrassegnati dalla legge di delega.
In
via incidentale la questione di legittimità è già stata sollevata nel
contesto di un giudizio pendente dinanzi al Consiglio di Stato - Sezione VI, e
si attende la decisione, ormai imminente, del Giudice a
quo[7].
In via principale, consta che diverse Regioni abbiano deciso di impugnare il
decreto sotto molteplici profili di ritenuta violazione dell’assetto di
competenze costituzionalmente sancito e di inosservanza dei limiti contenuti
nella legge delega.
L’ultima parola, dunque, spetta ancora una volta al Giudice.
(avv.
Vittorio Triggiani)
[1]
Così, Corte di giustizia, parere
1/91 del 14 dicembre 1991, in Raccolta,
1991, 6079. Sul tema G. Gaja, Introduzione
al diritto comunitario, Roma-Bari, 1999, terza edizione, 97 ss.
[4]
Cons.
St., VI, 3.6.2002 n. 3098; idem,
6.8.2002 n. 4096.
[5]
Cfr.
B. Giuliani e M. Zoppolato, commento a TAR Lombardia - Brescia, ord.
27.11.2001 n. 830, in Urbanistica e Appalti, 5/2002, 602 e ss. Circa
l’obbligo dell’amministrazione di disapplicare il diritto interno
statale incompatibile con una normativa comunitaria, v. Corte di Giustizia
delle Comunità Europee, sent. 22.4.1989, in causa n.103/88, Fratelli
Costanza/Comune di Milano).
[6]
Corte
di Giustizia delle Comunità Europee, Sez. II, 29.4.1999, in causa C.224/97,
in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 1999, 1347 ss.
[7]
Ric. n. 6967/2002.